Non chiamare un bambino timido.
Forse è semplicemente introverso», scriveva Susan Cain cinque anni fa nel suo bestseller – Quiet. Il potere degli introversi – dove accusava il mondo di essersi “formattato” a misura della socializzazione estrema.
Tutto un open-space e “un abbraccione” tra gente che si è conosciuta mezz’ora fa. Gasata dal successo, Cain ha avviato il movimento della rivoluzione silenziosa che adesso è diventato un business. L’Harvard Magazine l’ha chiamato industria dell’introversione, (la Quiet Revolution). Essere introversi è diventato improvvisamente fico, e l’essere timidi una iattura. Moran comincia subito chiarendoci la differenza tra l’essere timidi e introversi.
«L’introversione è un modo in cui è strutturato il nostro cervello: gli introversi si sentono mentalmente sotto pressione quando sono in compagnia, perché hanno bisogno di periodi di solitudine per elaborare le informazioni ricevute dal cervello e poi tornare nel mondo sociale riprogrammati e pronti. La timidezza è un’altra cosa. È più una questione di auto-consapevolezza dell’esserci, imbarazzo per il proprio corpo davanti allo sguardo degli altri, senso di impaccio, paura sottile. Non è su come lavora meglio il nostro cervello e di cosa ha bisogno per farlo, ma sulle rappresentazioni di noi che ci costruiamo in testa in relazione agli altri. È la capacità di immaginare come potrebbero vederci».
Moran ha formulato una specie di test rapido per capire se si faccia parte della categoria. «Siete di quelli che ai party sfoderano un sorriso criptico, che suggerisce quanto siate divertiti al dispiegarsi della commedia umana davanti a voi ma allo stesso tempo imperturbati dal non farne parte? Perché ogni timido è anche un impareggiabile voyeur, più attento della media a pregi e difetti dell’umanità che teme, lo avrete notato». L’altro test è se riuscite a postare e condividere senza problemi un’opera del vostro intelletto o simili sui social network, o se vi vergognate a farlo anche se ormai è normale.
La timidezza sarebbe in pratica «un sottoprodotto» della coscienza. Pare facesse impazzire Darwin perché non ha alcun beneficio apparente per la specie umana, se non quello di tradire la differenza che c’è tra noi e gli animali (loro non arrossiscono). Avendo poi sviluppi diversi a seconda delle culture, quelle che hanno più parole per definirla sarebbero quelle che ne “soffrono” di più (un po’ come la storiella degli eschimesi e i tanti modi per definire la neve, vera o no). Scandinavi e sud-asiatici hanno i vocabolari più ricchi e i finlandesi hanno perfino una versione empatica della Schadenfreude (godere della sfortuna degli altri) che è la myothapeya, la pietà che proviamo immedesimandoci in chi si vergogna. Gli americani hanno uno scarsissimo lessico per l’imbarazzo essendo terra di cowboy e self-made men. Ma ci hanno dato l’icona dei timidi che è Charlie Brown, alter ego del suo creatore Charles Schultz. Insieme ai padri fondatori dell’età del computer e di Silicon Valley: dal matematico Alan Turing al cofondatore Apple Steve Wozniak, a Mark Zuckerberg. E qui sta il punto cruciale, quello che farebbe della timidezza una chiave per capire comportamenti e paradossi della società digitale.
Il primo paradosso è che la tecnologia è il regno dei timidi. Quello che ha generato orge di vita in diretta su Instagram, litigate feroci su Twitter e chat a viso aperto su Facetime, si deve perlopiù a gente che adora stare in un angolo, imprenditori nerd. In questo bipolarismo sta tutto. Che rapporto di causa effetto c’è? «Non voglio generalizzare troppo, ma c’è qualcosa nel linguaggio della programmazione che attrae irresistibilmente i timidi. Perché permette di avere relazioni in modalità ancora più remota eppure più intima di quanto avessero già fatto lettere e telefono», risponde Moran.
Tra le storie saltate fuori durante la ricerca per il saggio, c’è quella di quando la Nokia ha introdotto il texting nei suoi telefonini a inizio anni ’90. Ci fu un tripudio silenzioso tra giovani finlandesi maschi, nazionalmente timidi, e il cellulare diventò il regalo obbligato per la cresima a 15 anni. Fu un boom di sms amorosi, dove l’unico rivelatore della sindrome era il tempo impiegato – anche un’ora, avrebbero confessato, a digitare e ridigitare ogni messaggio. Gli altrettanto timidi giapponesi sono i pionieri riconosciuti degli emoticon con gli asterischi a indicare le gote arrossate, prima che arrivassero gli emoji (non a caso è nei manga che i personaggi arrossiscono più che in ogni altro cartone, come Lupin III nelle situazioni di nudo e soft-porn).
Moran ci ricorda una bellissima coincidenza di date e fatti. «Il 1975, l’anno in cui Fonzie della serie Happy Days rendeva pop il termine per lui dispregiativo “nerd”, è lo stesso in cui in un garage della West Coast un gruppo di timidi organizzava i meeting della Homebrew Computer Company a Menlo Park». Uno era Steve Wozniak, il socio ombra di Steve Jobs. In pochi anni «milioni di ragazzini avrebbero affidato la loro timidezza al bagliore di un computer», e da lì in poi è storia nota.
Fonte: D-Repubblica