A volte le si fa entrare nella nostra vita.
A prima vista sembrano piacevoli ma poi emergono lati più oscuri, meno costruttivi. Sono le cosiddette “persone negative”, quelle che molti definiscono “tossiche”, quelle che “se ci lasciano è meglio”.
Paulhus Delroy della British Columbia University ha individuato, ad esempio, la triade dell’oscurità, composta da individui machiavellici (personalità calcolatrici e manipolative, spesso passive-aggressive), narcisisti (egoisti e con scarsa o nulla empatia, capaci di ferire chiunque pur di proteggere la propria autostima) e psicopatici (insensibili e privi di sentimenti ed emozioni legate alla compassione).
Ma anche uscendo dagli inferi della pura cattiveria, ahinoi non c’è che l’imbarazzo della scelta: possiamo incontrare i criticoni (quelli a cui non va bene niente, pronti a demolire con osservazioni che non hanno nulla di costruttivo), i perennemente insoddisfatti (che vedono sempre il bicchiere mezzo vuoto), i vittimisti, quelli che ti colpevolizzano, i controllori, i giudici spietati, gli ipergelosi, gli aggressivi, magari pure i prepotenti e maneschi. E via discorrendo.
Quali che siano le loro caratteristiche la prima riflessione da fare riguarda il significato dell’incontro. La verità è che nulla succede per caso e ogni persona che “sosta” – per breve o lungo tempo – nella nostra vita ci parla di noi, quantomeno può rivelarci, mostrarci, sviluppare qualcosa in noi.
Infatti, qual è l’effetto che possono produrre? Farci sentire sbagliati, minare la nostra autostima, farci sentire deboli, sbagliati, incapaci, confusi, colpevoli, vittime e in generale fanno sì che si riduca la nostra energia vitale, aumenta anche la nostra stanchezza fisica, la lucidità e l’apertura mentale. Agiscono insomma sul nostro benessere fisico, emozionale, psicologico, energetico.
Se succede, però è solo perché hanno trovato in noi un “varco” che ha permesso che questo avvenisse: si potrebbe dire che sono come degli allenatori sul ring che, durante l’allenamento, ci prendono in pieno con un gancio diritto allo stomaco e – così facendo – ci mostrano che dobbiamo sviluppare un’adeguata copertura di “quella zona” oppure che ancora non conosciamo determinate tecniche e trucchi di combattimento.
Una volta che si è riconosciuto e accettato che “quella” relazione non ci fa bene (e dopo aver rilevato le nostre specifiche “aree di sofferenza”), ci si può finalmente prendere cura della propria “zona scoperta”: facendo un percorso di lavoro personale, sviluppando talenti, rafforzando la propria autostima e le proprie competenze relazionali e sociali.
A quel punto, evitando anche di cadere nella possibile illusione che l’altra persona cambierà (o che spontaneamente se ne andrà) si potrà agire di conseguenza dentro una nuova visione più corretta dei propri bisogni e della qualità della relazione. Le possibilità sono ovviamente tante: si potrà arrivare ad esempio “solo” al distacco, ovvero la capacità di non farsi più “toccare” da quella persona o dai suoi comportamenti, a strategie di “contenimento” e gestione proattive, oppure si potrà prendere la decisione di separare decisamente le proprie strade. Andandosene.
Quale che sia la strategia che, in quel momento, è giusta per noi, il modo più armonioso per compiere questi passaggi è nella compassione: per se stessi e per l’altro. Lasciando andare l’eventuale rancore, onorando l’esperienza fatta: integrandola, diventa un tesoro. Un pezzo del proprio bagaglio di “tesoro personale”.
Fonte:greenme.it