In Italia ogni anno si producono 5,6 milioni di tonnellate di eccedenze alimentari, che troppo spesso diventano rifiuti. Senza dimenticare che accanto agli sprechi domestici figura la mole impressionante delle eccedenze alimentari provenienti da supermercati, botteghe, negozi e ristoranti.
Si parla di 5,6 milioni di tonnellate di cibo ogni anno, che se non vengono donate, raccolte e ridistribuite al momento opportuno si trasformano in rifiuti. A questo proposito, lo scorso 14 settembre è entrata in vigore la legge 166/2016 dal titolo Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi, che ha introdotto importanti facilitazioni per i donatori, per le associazioni di volontari e per tutti gli attori coinvolti in questo processo virtuoso.
Eccedenza e spreco. Due termini che spesso vengono usati come sinonimi, ma non è così.
Il relatore della legge 166/2016 rispondendo ad una serie di brevi domande, spiega le differenze e le procedure:
“La legge, già nei primi articoli, vuole definire subito che cosa è spreco e che cosa è eccedenza. Lo spreco è lo scarto, quel cibo che diventa rifiuto. L’eccedenza, invece, è quel “di più” che si genera nella filiera agroalimentare, dal settore primario fino alla distribuzione, ed è essenzialmente fisiologico. Pensiamo alle mense scolastiche, che non possono sapere in anticipo quanti bambini saranno presenti quel determinato giorno, o ai negozi e ai supermercati, il cui numero di clienti può dipendere dal traffico, dal meteo o da qualsiasi altra variabile. Tutto quello che troviamo ancora in un banco della gastronomia a cinque minuti dalla chiusura del supermercato e che dunque non può essere venduto in tempo è eccedenza. Ma corre il rischio di diventare spreco”.
Che cosa di può fare, dunque?
“Le soluzioni sono diverse e possono essere efficaci su diversi fronti. Anche nel nostro Paese, per esempio, sono nate diverse app con cui i negozi, i supermercati o anche le piccole botteghe possono avvisare i propri clienti a fine giornata, proponendo sconti sui prodotti che altrimenti resterebbero invenduti. E poi c’è il tema della solidarietà sociale, che è quello di cui si occupa principalmente la legge 166/2016. Il commerciante e il ristoratore possono decidere di donare le proprie eccedenze ad associazioni di volontariato, che si preoccupano di distribuirle alle persone più bisognose”.
Quali sono le principali difficoltà?
“Le principali difficoltà sono legate al tempo e alle modalità di raccolta e di distribuzione del cibo, soprattutto quando si parla di prodotti freschi, di pane, frutta e verdura o di alimenti già cotti, che devono essere mantenuti all’interno della catena del freddo e del caldo. Le eccedenze alimentari, in Italia, sono attualmente pari a 5,6 milioni di tonnellate all’anno. Prima dell’entrata in vigore della legge si riuscivano già a recuperare 500mila tonnellate, e ora vogliamo fare un passo in avanti e raddoppiare questo quantitativo”.
Che cosa può aiutare il processo?
“Innanzitutto diventa fondamentale la sinergia tra i diversi soggetti. Anche i ristoratori e i piccoli commercianti di quartiere possono mettersi in contatto in anticipo con le associazioni, esprimendo la propria volontà di donare le proprie eccedenze a fine giornata. In questo caso ciò che è invenduto non sarà più trattato come un qualcosa destinato alla pattumiera, ma come un pasto di cui avere cura e rispetto, perché destinato a una tavola. Credo che per un ristoratore e per chi produce cibo non ci sia soddisfazione più grande di sapere che il proprio lavoro può rendere felice qualcuno, anche se non è un cliente”.
Oltre alla soddisfazione personale, ci sono altri vantaggi per chi dona?
“Il singolo Comune può decidere di scrivere sul proprio sito quali sono i negozianti, i panettieri e i ristoratori che partecipano a progetti di questo tipo. Normalmente sono dell’idea che la carità e le buone azioni debbano rimanere anonime, ma in questo caso è invece importante parlarne, far sapere il più possibile che donare è possibile e bello. L’articolo 17 della legge, poi, suggerisce ai Comuni di applicare a queste attività un coefficiente di riduzione sulla tassa dei rifiuti proporzionale a quanto si è donato. Ho visto con molta gioia che diverse città hanno già incominciato a seguire questo consiglio, Prato, Empoli, a breve anche Varese. L’incentivo diventa così sia morale sia fiscale, e questo è un bene: il cibo recuperato in questo modo non diventa un rifiuto da raccogliere e smaltire, ma diventa anzi un pasto. Un pasto a cui i servizi sociali avrebbero comunque dovuto provvedere. In questo caso il risparmio è per tutti: per chi deve raccogliere i rifiuti, per i servizi sociali e anche per chi decide di donare”.
Qual è la situazione odierna nelle diverse regioni italiane?
“L’Italia, lo sappiamo, si muove a diverse velocità. Quando ho iniziato a scrivere la legge due anni fa sono partita proprio analizzando le esperienze virtuose che già esistevano nel nostro Paese. In questo senso ci sono regioni molto avanti sia sul recupero, sia sulle diverse modalità di distribuzione, sia sull’attivazione di market solidali e ristoranti sociali, che permettono di rispondere a forme di povertà nuove, meno evidenti. Queste regioni sono la Lombardia, la Toscana, l’Emilia Romagna, ma anche la Puglia, dove ho trovato molte associazioni di giovani che si stanno dedicando alla creazione di progetti mirati. In altre zone il tema è ancora nuovo e poco conosciuto, e la legge può servire da stimolo”.
Ma lo spreco alimentare può essere prevenuto anche tra le mura domestiche?
“Assolutamente sì. Bisogna specificare sin da subito che la prevenzione dello spreco alimentare non riguarda la distinzione tra poveri e ricchi, tra chi si può permettere di sprecare e chi no. Deve diventare qualcosa di orizzontale, un’abitudine culturale, un qualcosa di valido per tutti e a prescindere. È dunque fondamentale ricevere un’educazione a tal proposito. Il più delle volte si spreca inconsciamente: nessuno decide a priori di essere uno sprecone. Si diventa spreconi, però, quando conserviamo male il cibo nella dispensa, quando apriamo in modo sbagliato le confezioni dei prodotti, oppure quando buttiamo via qualcosa perché pensiamo erroneamente che sia scaduta. Per esempio: tutti quei prodotti che riportano la dicitura “da consumare preferibilmente entro”, chiamata in gergo tecnico Termine Minimo di Conservazione, non scadono nella data riportata sulla confezione. Quella è un’indicazione di consumo, non una data di scadenza, ed è importante iniziare a chiamarla come tale, perché il cibo può essere ancora consumato in totale sicurezza. E disfarsene, in questo caso, diventa uno spreco”.
Ci sono poi sempre più iniziative a favore della “doggy bag”, o “family bag”, per evitare gli sprechi nei ristoranti e portare a casa gli avanzi. Qualcosa sta cambiando anche su questo versante?
“Il tema della “family bag” è diventato molto popolare negli ultimi mesi, e questo è un caso in cui le mode possono fare bene. Vedo sempre più spesso ristoranti che hanno sdoganato questa pratica, proponendola direttamente al cliente e scegliendo confezioni pratiche, piacevoli alla vista, talvolta addirittura di design. È la dimostrazione che i comportamenti virtuosi possono essere promossi e incentivati. Per il resto, sono convinta che la battaglia della “family bag” sarà vinta definitivamente quando la “family bag” non sarà più necessaria. Perché vorrà dire che avremo imparato a ordinare il giusto, combattendo lo spreco a monte”.
Fonte dell’articolo: wired.it